Recensione: “Apologia di un destino comune” – Franco Giaffreda

Gli incalcolabili danni che la pandemia ha generato in questo ultimo anno, nascondono a volte qualche piacevole effetto collaterale: ci hanno permesso di guardarci dentro e di tirar fuori ispirazioni intense, proprio per il fatto di averci risvegliato, seppur in un modo che ci saremmo sicuramente evitati, dalla trance quotidiana che ci stava assorbendo tutte le energie.

E se di “rovescio della medaglia” (ai meno giovani appassionati di Prog, questo virgolettato dirà qualcosa) si vuol parlare, allora è il caso di parlare di quanti artisti, emergenti ed emersi, hanno trovato dentro questa introspezione forzata una nuova linfa artistica e compositiva.

Uno di questi è Franco Giaffreda, chitarrista funambolico e cantante che ha vanta progetti e collaborazioni decisamente invidiabili.

E questo “Apologia di un destino comune” è un disco interamente concepito nella fase di isolamento della primavera scorsa, in cui il musicista classe ’70 tira fuori una certa brillantezza.

Il disco, da comunicazione stampa, ci arriva come concept-album, ma diciamo subito che il filo conduttore non è immediato al primo ascolto; un ascolto più approfondito ci lascia cogliere il viaggio introspettivo, e nei ricordi, che si apre con una Intro, “2020”, che picchia duro. I primi brani lavorano di muscoli, spingono forte e ci lasciano quasi pensare ad un disco tutto su quella scia.

Appena alla quarta traccia, “Niente ha più senso”, invece, viene fuori uno spirito Hendrixiano su una struttura perfettamente radiofonica, nulla di più inaspettato, e che ci sorprende piacevolmente.

Con “Solo le nuvole” Giaffreda si trasforma ancora, le atmosfere si fanno più ariose e qui c’è spazio per armonie meno comuni ed un solismo a tratti esotico. Elemento pop e atmosfere aperte che sono comuni anche al brano “Momenti”, in cui le chitarre strizzano l’occhio a quei Velvet Undergound di “Here comes the sun”.

Per sentire le influenze del prog più serrato dobbiamo arrivare a “Incredibile realtà”, in cui Giaffreda & co sono praticamente la PFM a cena coi Dream Theater, soprattutto quando alternano tempi binari e ternari in modo improvviso, senza farsi mancare qualche interessante fuga “dispari”.

Non si può non citare, su questo brano, una collaborazione assolutamente eccezionale come quella col bassista statunitense Michael Manring, un faro per il suo stile musicale, ulteriore valore aggiunto.

Apprezzatissima da chi scrive, “Re-legati” gioca in modo arguto col titolo, per regalarci una cavalcata classica di legato, in cui la maestrìa tecnica di Giaffreda tocca forse il punto più alto del disco.

“Di chi è la colpa” è un brano che parte con una intenzione sorprendentemente Roots-blues, per poi lanciarsi in un punk/rock’n’roll alla massima velocità. Forse in questo brano sarebbe servito un suono meno patinato, ma ci rendiamo conto della filologicità del resto del disco.

Ancora sorprendendoci, “Nel silenzio” ci para davanti dei ritmi quasi latini, in cui ci pare di sentire echi di Pino Daniele.

“Apologia di un destino comune” è un album fortemente incentrato sulla chitarra, con una produzione pulitissima e tipica di un certo filone del progressive (ci vengono in mente in Toto).

Seppure anche le esecuzioni vocali siano di alto livello, il disco soffre, e anche un bel po’, forse, nelle liriche. Senza voler minimamente mettere in discussione il sentire di un artista che comunque dimostra grande sensibilità, forse dei testi più curati e meno ridondanti avrebbero reso giustizia maggiore ad un disco che comunque si distingue per la qualità indiscussa.

Siamo comunque grati a tutti quegli artisti, come Franco Giaffreda, che in questo momento critico non stanno abbandonando la ricerca della bellezza e continuano a fare arte senza compromessi, e questa gratitudine si unisce al nostro augurio di poterci sempre riuscire.

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