«Vi racconto “Dalla Culla”», intervista a mikele

mikele

Approfittando dell’uscita del suo primimissimo singolo “Dalla Culla”, pubblicato in streaming lo scorso 30 settembre, abbiamo posto qualche domanda a mikele. Un giovane pronto a imporsi come una delle più fresche e interessanti realtà del Crossover della nuova generazione. Un sound europeo che unisce e mixa diversi generi musicali soltanto in apparenza lontani, amalgamandoli a lingue diverse, frutto dei suoi studi e delle sue esperienze.

 

Il tuo stile è molto particolare e futuristico, ci racconti il percorso che ti ha portato alla realizzazione del tuo primo singolo “Dalla Culla”?
È stato un lungo viaggio. Ho prodotto la prima bozza della strumentale in Inghilterra, dove ho anche esportato l’ultima versione. Di mezzo ci sono state varie tappe, tra Italia e Francia.

Digitale e analogico. Quanto ti allontana dalla tradizione l’uno e quanto dal presente l’altro?
Una volta, ti avrei risposto “Molto” a entrambe le domande. È difficile sentirsi in sintonia con la tradizione quando produci hip-hop, com’è complesso sentirsi al passo coi tempi quando si suona musica classica. Il mio sviluppo come artista è stato volto a creare un ponte tra questi due mondi, in modo tale che possano coesistere in un genere unico e personale.

Hai scelto la strada dell’autoproduzione, ti piacerebbe essere affiancato da una major?
Non riesco ad immaginare come una major riuscirebbe a gestirmi se non proponendomi come un David Bowie dei poveri. Ogni brano ha la sua storia e il suo genere a sé. Quando le label sentiranno una cartella di canzoni mie, penseranno che sia troppo variegata.

Pensi che in questo particolare momento storico ci sia un approccio culturale differente tra un artista affermato e uno che sta muovendo i primi passi?
Assolutamente. Purtroppo non ha neanche a che vedere con l’essere ai primi passi o meno. Dipende tutto da quanti seguaci hai sui social, quanto sei bravo a proporti su tutte le piattaforme. Un influencer con molti seguaci può essere alla prima canzone ma sorpassare migliaia di emergenti che studiano musica da una vita, ma che non hanno una presenza mediatica.

C’è invece qualcosa di positivo nel fare musica in questi anni 20 del terzo millennio?
Ci sono sempre due modi di vedere le cose. I social permettono di proporre più contenuti, essere a maggior contatto con gli ascoltatori e quindi creare un rapporto più stretto con loro.

Nella musica, sia da musicista che da fruitore, c’è qualcosa che non sopporti?
Non sopporto la paura di osare. I pezzi che non hanno neanche una nota che mi coglie impreparato mi annoiano. Voglio essere sorpreso, com’è vero che voglio sorprendere io stesso.

Ultima domanda, il tuo desiderio più grande?
Nella mia carriera come artista, voglio che il mio nome vada oltre un genere o una lingua. Il mio sogno è di avere il pubblico più variegato possibile, dai più piccoli ai più giovani. Vorrei essere “passe-partout”.

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