Vinicio Capossela – Canzoni della Cupa

Se la grammatica divina di Benni si occupava di accorpamenti di solitudini inventate sulla carta, le storie di cui si serve Vinicio Capossela nel suo “Canzoni della Cupa” (La Cùpa, distribuito da Warner Music), attingono a una tradizione mai ingombrante, eppure dimenticata, dello stivale italico già ripercorsa nelle dune del romanzo “Il paese dei Coppoloni”. Opera in due parti, l’album ha necessitato di una gestazione dai tempi agricoli (parliamo di tredici anni), e segna il ritorno del cantautore irpino alla terra, in una dimensione tellurica che controbilancia l’allora doppio album per mare “Marinai, profeti e balene” del 2011. E il sortilegio, presagito dall’hype del singolo “Il pumminale”, ricade nelle orecchie come fosse veleno in un’ampolla: lento e micidiale, preciso e stregonesco. Sono fiere e tabacchine, i ritratti  avvolti nel mistero di un treno fantasma,  spesso presi in prestito dal talento intramontato di Matteo Salvatore, la “maya desnuda” delle masserie in “La padrona mia”, la donna che cambia vita tra le lacrime ne “Il lutto delle spose”, i contadini imbevuti di proverbi in “Rapatatumpa”. Appare tutto come un gigantesco calembour, in cui le cronache si travisano mescolandosi alla leggenda, all’epopea, al racconto mitico che ne fu, proprio come nella migliore trascrizione del genere folk. Le liriche, dopotutto, sono traslucide come schizzi di Benjamin Lacombe (l’”Erbario delle fate” potrebbe configurare tra i canti, perché no) e cesellano brani che omaggiano la terra generatrice, nel seno della poesia che celebra il suo significato più ancestrale: l’invenzione e la sua fabbricazione. 

  • 8/10
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