In un panorama musicale spesso dominato da algoritmi, formati e mode, Filippo Zucchetti rivendica con forza il valore dell’autenticità e dell’urgenza espressiva. La parola, per lui, non è mai un semplice mezzo, ma un materiale vivo, da scolpire e attraversare, da lasciare libero di dissolversi o sedimentarsi nell’ascoltatore. Nel suo nuovo singolo, L’uomo che non c’era, l’autore approfondisce il suo percorso visionario con una scrittura che si fa liquida, slegata da logiche tradizionali, eppure capace di toccare corde profonde, intime.
Nel nuovo brano sembri voler spingere ancora di più sul confine tra parola e percezione. Quanto è cambiato, se è cambiato, il tuo rapporto con la scrittura rispetto ai brani precedenti?
Il mio rapporto con la scrittura non è cambiato, semplicemente, per il brano in questione (“L’uomo che non c’era”), avevo bisogno di totale libertà espressiva, senza vincoli di alcun tipo, salvo quelli della metrica. Non a caso ho scelto di trattare concetti inerenti alla sfera dell’impercettibile, dell’immateriale e, in quanto tali, non potevano essere vincolati ad una struttura narrativa logica e razionale. Si tratta di un brano carico di immagini emotive e oniriche e, per loro natura, non volevo fossero vincolate alla forma e alla logica della narrazione tradizionale. Avevo bisogno di uscire dagli schemi, staccarmi dal bordo e andare alla scoperta di luoghi mentali inesplorati.
In un momento in cui molti artisti rincorrono il formato-canzone “perfetto” per i social, tu scegli un linguaggio quasi opposto, visionario. È una scelta istintiva o una forma di resistenza artistica?
Credo che la differenza stia nel fine che uno si prefigge. Quando scrivo una canzone lo faccio per una esigenza espressiva personale e non per compiace il pubblico; tantomeno faccio uso di tecniche atte a produrre “la canzone che funziona”; il fine diventa perciò, nel mio caso, null’altro che la realizzazione della canzone stessa. Ritengo che almeno l’arte debba resistere e non confondersi con la tecnica razionale. Da questo punto di vista non ho dubbi nell’affermare che si tratta proprio di resistenza artistica!
Nel nostro primo incontro ci parlavi della scrittura come della tua parte più pura e profonda. In “L’uomo che non c’era” sembra emergere anche una certa urgenza nel raccontare. Cosa ti spinge oggi a scrivere?
Una profonda e pura esigenza espressiva.
La tua musica è spesso piena di immagini cinematografiche. Se questo nuovo singolo fosse una scena di un film, come la descriveresti?
Un uomo in una stanza con le pareti di ardesia (Pietra di lavagna) su cui disegna con il gesso tutti i personaggi della canzone scrivendo man mano delle frasi del brano. Alla fine si sgretola il soffitto ma vengono giù petali e inizia una pioggia intensa che scioglie il gesso dei disegni e delle frasi tranne la scritta “L’anima non muore”.
“Cielo Elettrico” era un viaggio tra “stanze” emotive. Con “L’uomo che non c’era”, invece, sembra di entrare in un luogo ancora più liquido, indefinito. Come ti relazioni alla forma mentre componi? Ti capita mai di distruggere per ricomporre?
In certe canzoni la forma è necessaria in quanto è il tipo di racconto che la richiede. In altri casi invece (vedi “Uomo che non c’era”) è necessario superarla, rompere gli schemi e far fluire l’immaginazione in modo totalmente svincolato. Mi rendo conto che un testo è concluso quando percepisco una “soluzione”; cioè quando l’esigenza espressiva iniziale, che in un certo senso crea una sorta di tensione, si risolve; in quel momento capisco che la canzone è in equilibrio ed è conclusa. A volte questa distensione non arriva, sintomo di un testo incapace di tale risoluzione. Spesso gli aggiustamenti non servono, anzi peggiorano la situazione e quindi, a malincuore, sono costretto a ricominciare tutto da capo.
C’è un passaggio che ci ha colpito nella tua precedente intervista: «Mi sento prima di tutto un autore di musica e parole che interpreta le proprie canzoni». Cosa significa per te oggi essere autore, in un panorama musicale che spesso privilegia l’interprete?
Vi ringrazio per questa domanda perché mi permette di trattare un tema a cui tengo molto: i ruoli dell’interprete e degli autori/compositori della canzone e il loro relativo risalto. Sono convinto che a quest’ultimi, in quanto creatori delle canzoni, andrebbe di diritto una rilevanza proporzionata al proprio ruolo. Una bella canzone di base è indiscutibilmente merito di chi la scrive. Un bell’album è tale perché all’interno ci sono belle canzoni. Malgrado ciò degli autori/compositori non ne parla nessuno, non vengono pressoché mai nominati (salvo sporadici casi) e raramente compaiono, ma solo per pochi secondi, in microscopici caratteri senza nemmeno la distinzione tra autori del testo e compositori. E anche in questi rarissimi casi, si tratta comunque di un fatto di diritti d’autore e non certo di voler dare merito a questi ruoli. Quasi nessuno li conosce e per trovarli vanno fatte mirate ricerche sul web. Eppure sono loro che scrivono le canzoni! Chi, se non loro, dovrebbero essere per primi ad essere manifesti. La comunicazione nei loro confronti è talmente celata (temo volutamente) che si viene a creare tra il pubblico una errata associazione tra l’interprete e l’autore/compositore; ovvero la falsa percezione che il cantante sia anche autore/compositore del brano. Sembra che la canzone diventi di sua proprietà (non a caso tutti dicono: “la canzone di…” nominando, erroneamente, sempre e solo l’interprete. Raro e unico caso Mogol/Battisti). Sarebbe corretto e giusto che di seguito al titolo del brano venissero sempre esplicitati gli autori e i compositori precisando chi sono gli autori del testo e chi i compositori della musica. Questi ruoli sono unici, fondamentali e immutabili. Di volta in volta, perché mutabili, andrebbero aggiunti anche le figure dell’arrangiatore (figura importantissima e mai nominata) e del produttore. Se ascolto un brano e mi piace, personalmente vorrei sapere se quelle parole o quella musica sono state scritte dall’interprete stesso o se da altre persone e, in questo caso, da chi. Mi scuso per la divagazione ma era doveroso. Tornando alla domanda rispondo in modo molto semplice e inequivocabile: se non fossi io a scrivere le canzoni non avrei mai iniziato a cantare; ne consegue che la parte creativa, autorale e compositiva per me è tutto.
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