Sanremo 2018: le pagelle di Capitano Aldo (Prima serata)

Sanremo 2018 pagelle

Fiorello = urticante, ingobbato nella sua fastidiosa retorica dai tempi comici infiniti. Dovrebbero aprire il Festival con una nota di colore leggiadra, istrionica – questo nell'intenzione – ma con questa scelta i dirigenti ammorbano la pazienza già traballante alla sola menzione che il "superospite" della serata sarà Gianni Morandi. Vorrebbero che a guardare il Festival fossero i giovani, e per questo scomodano i tirannosauri della noia più assoluta. 4

Triade alla conduzione = Baglioni ingessato, imbalsamato, peggio di un mimo che cerca di svelare l'arcano mistero delle sue gesta. I testi scritti da qualche ghost writer pagato sicuramente meno di lui sono la dimostrazione che l'intenzione è quella di voler primeggiare come soubrette nel numero centrale del circo. Peggio di una coda dell'illeggibile "Intern nos", il guazzabuglio di carta stampata che Baglioni ha portato di recente nelle librerie. La sua omelia, semplicemente, è straziante, e i suoi aiutanti sono pure peggiori. Favino non strappa un sorriso nemmeno a provare tutte le acrobazie a sua disposizione (comicità, recitazione, canto… tutto cade in una fornace di sbadigli e perplessità), la Hunziker non diverte e dà prova soltanto di sapere baciare il marito e saper studiare a memoria il regolamento. 4

Annalisa, Il mondo prima di te = La sclerosi della regia accompagna l'apripista. La voce vacilla inizialmente ma a non convincere è ciò che segue. Canta una ballata mummificata, avvolta nel suo stesso potenziale inespresso, sicuramente appetibile nel fantomatico Festival di Sanremo del 1918, menzionato ironicamente da Fiorello poco prima. Peccato, perché la voce è edera lungo le pareti delle possibilità. Ma il pezzo è così-così tendente al basso. 5

Ron, Almeno pensami = Poesia di pochi accordi, è Lucio Dalla che rivive nelle sue stesse liriche. Merito al merito, Ron è indegno interprete che si eclissa dietro l'ombra di un gigante. La consistenza del brano, salvo qualche luccichio metaforico, si arena presto in un ritornello b-side comodamente ripescato per l'Ariston. 5.5

The Kolors, Frida (mai, mai, mai) = Michelle li cita come gruppo "elettrofunk" e il tutto risuona come se i Ramones fossero stati definiti reggae. Ci dispiace per loro che agli ombrelloni manchino ancora parecchi mesi, quindi non potranno nemmeno giovare di questa presunta radiofonicità del brano. Esprimersi sul brano equivarrebbe a commentare la plastica facciale del conduttore o le nuances dei capelli del cantante: sarebbe del tutto inutile. Salgono gli sbadigli. 4

Max Gazzé, La leggenda di Cristalda e Pizzomunno = Se giocassimo a freccette con l'intellettualismo di Brunori Sas faremmo centro al cuore di questo brano. Patetico ai limiti di un film pixar scartato dal team di creativi. Ridondante, completamente deludente, Gazzé irriconoscibile. 4

L'esorcismo di Laura Pausini è un siparietto inguardabile, che riflette la pochezza che carbura il Festival: un tentativo disperato di acciuffare qualsiasi fetta di pubblico per fa funzionare una scaletta dissestata, appoggiata alle pareti di un edificio chiaramente marcescente.

Ornella Vanoni – Bungaro – Pacifico, Imparare ad amarsi = La ricercatezza è anzitutto profonda consapevolezza, la Vanoni sembra canti dal pulpito delle sue ultime raccomandazioni. Un testo sublime si arrampica su una melodia soffusa che si divarica alla prepotenza melodrammatica degli archi. La prima vera emozione della serata, nonostante i rimandi troppo marcati a "Che ne sarà di noi" di Gianluca Grignani e alla colonna sonora della serie televisiva "Gomorra". 7

Ermal Meta – Fabrizio Moro, Non mi avete fatto niente = Inascoltabili, boriosi, alla canna artistica del gas, sciacalli peggio di Povia. Dovrebbero scomparire dalla circolazione per i prossimi 10 Festival e sperare di recuperare un po' di dignità. Con loro torna lo Zecchino d'oro dei provincialismi politically correct. 3

Mario Biondi, Rivederti = Immaginiamo di portare per un attimo i Kraftwerk sul palco dell'Ariston…che effetto farebbero? Cacofonico. Ecco, la lagna di Biondi, che giusto in un jazz club milanese avrebbe la sua giusta eco masturbatoria accettata, fa lo stesso effetto. Soporifera e zelante, è un "No, no, no!" in stile Thatcher. 4

Roby Facchinetti – Riccardo Fogli, Il segreto del tempo = Il disagio è palpabile e a trionfare è soltanto un'urgente sonnolenza. A pensare che il canone Rai è così laudamente pagato per obbligo dai contribuenti verrebbe da optare per un immediato suicidio di massa. Ma che davèro? 2

Lo Stato sociale, Una vita in vacanza = Con un testo scritto da uno scolaro di terza elementare, la loro spocchia li ricopre ai limiti del sopportabile. La loro ironia è il regno del qualunquismo che vorrebbero denunciare. Esibiscono una scemenza circense che è davvero troppo pretenziosa per essere considerata scherzosa. 3

Noemi, Non smettere mai di cercarmi = Tenta di duplicare la carta vincente di "Sono solo parole", ma le idee sono rarefatte, mielose, la mossa del bleuff si percepisce. Suona tutto come una farsa per arrivare almeno al podio. Non ci caschiamo. 4

Decibel, Lettera al duca = Ruggeri al suo peggio. Svuotato di ogni suo talento, qui si assimila alla vacuità che è protagonista assoluta dell'Ariston. Dovremmo commentare questi brani sul serio? Qualcuno aveva addirittura parlato di un omaggio a Bowie… 4

Elio e le storie Tese, Arrivedorci = Nemmeno loro riescono a decollare, non divertono. Neanche un ghigno di compassione, riescono a strappare. E pensare che la loro genialità è stata per un'intera carriera marchio di classe senza eguali, ma non in questa occasione. Piange il cuore che il finale sia così immeritevole dell'opera che l'ha preceduto. 4

Giovanni Caccamo, Eterno = "Che sia benedetta" di Fiorella Mannoia bis. Davvero qualcuno pensa che il pubblico sia così sordo da non notarne le infinite analogie? Evidentemente… 3

Red Canzian, Ognuno ha il suo tempo = Il ritmo del brano vorrebbe appiccicarsi all'orecchiabilità più veloce, e il tentativo è indubbiamente lodevole. Ma ci si rende conto che è tutto troppo anacronistico per essere preso sul serio. Ligabue cantava, in "Una vita da mediano", che "Quando hai dato troppo devi andare e fare posto". Largo, largo… 5

Luca Barbarossa, Passame er sale = Un lento pretestuoso per vivere di echi dal passato. Un lento sanremese che scivola via con la stessa leggiadria del vernacolo, che nulla aggiunge né toglie a un testo piatto, scialbo, già dimenticato. Bah… boh. 4

Diodato e Roy Paci, Adesso = Si percepisce l'onestà intellettuale tra gli accordi. L'alchimia è da rivedere, ma si regge sulle gambe con qualche lode e senza eccessive infamie. Comparata all'immondizia che la circonda, è una canzone che diviene persino bella. 6

Nina Zilli, Senza appartenere = Inizia con un miagolio, poi peggiora ad ogni minuto. "Tagliatele la testa", echeggia nella mente, oppure ditele che il genere che da anni vuole propinare a noi tutte è felicemente morto, allelujah. 4

Renzo Rubino, Custodire =  È vittima dell'incantesimo del palco: presentare una canzone brutta, radiofonicamente piatta. Ha sicuramente fatto di meglio ma qualora scegliesse di proseguire così (e un album e un tour in partenza sapranno darci le corrette risposte) possiamo aspettarci un peggio in agguato non troppo latente. Dimenticabile e anonimo. 5

Enzo Avitabile – Peppe Servillo, Il coraggio di ogni giorno = Classe autoriale, sottotono rispetto alle aspettative, l'arrangiamento maculato di bellezza incontra un testo dubbioso, che si rischiara soltanto al comparire del napoletano. Crescerà con gli ascolti? Per ora è bello che molti scoprano, probabilmente loro malgrado per la prima volta, che gigante sia Enzo Avitabile. 6.5

Le Vibrazioni, Così sbagliato = Sarebbe dovuto essere un ritorno in grande stile ma di notevole c'è solo il look affascinante di Sarcina, finto rocker maledetto sull'orlo di una crisi di mediocrità. Niente di nuovo o di fresco, l'arrangiamento battente serve poco o niente. Ennesima delusione. 5

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