Recensione “Utopia” – Björk

La casualità, nella vita, è una barzelletta che lascia riflettere così a lungo da rischiare di abbandonarsi allo sconcerto. Giunta al suo nono album in studio (targato One Little Indian Records), la cantautrice islandese Björk dona al mondo freak “Utopia”, un disco che si allinea numerologicamente con il significato dell’episodio discografico ordinale raggiunto: il nove rappresenta il compimento di un ciclo che guida alla trasposizione su un nuovo piano. In altre parole, essendo l’ultima cifra prima del dieci, contiene in sé il duplice concetto di inizio e fine, morte e rinascita. Simbolicamente, “Vulncura”, l’album precedente, era stato il trapasso della vita familiare della cantante.  Un disco di rottura che narrava, capitolo dopo capitolo, la dissoluzione del matrimonio dell’artista con il geniale Matthew Barney. Un inferno narrativamente pregno di archi e sovraincisioni, beat avvelenati e scenari apocalittici. Nel segno di una polarità opposta, come spesso è stato nella sua discografia (ricordiamo il passaggio di testimone tra l’esplosivo “Homogenic” e il celestiale “Vespertine”), Björk ha creato un capitolo paradisiaco, solenne, “spirit-washing”, come lei stessa l’ha definito. Un disco che già dal titolo chiarifica il suo potenziale sottopelle: utopica è la terra immaginata, inesplorata, piena di fiori e di  uccelli mai visti. Un locus amoenus che è sia il punto di ripartenza della personale speranza di  riabilitazione dopo la fine della storia d’amore durata tredici anni e sia l’oasi spirituale immaginata per concepire un mondo diverso, una realtà salvifica che possa essere un valido contrappeso allo scenario lugubre politico di questi tempi. Ancora una volta, nulla di completamente nuovo: nella traccia “Mouth’s cradle” del 2004, appartenente allo sperimentale “Medulla”, cantava “Ho bisogno di un riparo per costruire un altare lontano da tutti gli Osama e i Bush”. Oggi il cattivo di turno è Trump, e con lui tutti gli scellerati che giocano al conflitto in un gioco di specchi d’ego che minaccia un’intera umanità.

Ovviamente, a sostenere un concept così corposo, l’artista non poteva che circondarsi ancora una volta della mente fertile del produttore venezuelano Arca, Divino Otelma di uno scenario elettronico sempre più interessante. La loro, oltre ad essere un’amicizia significativa, è anche una collaborazione che l’artista ha paragonato a quella esistente tra Joni Mitchell e Jaco Pastorius.

Pubblicato il 24 novembre 2017, a tre giorni dal suo 52esimo compleanno, l’album è una benedizione pagana spalmata sui generi avant-garde e folktronica, ambient e musica corale. Il più lungo della carriera, tra i più trascendentali ed eterei. Per ottenere questo risultato, in coerenza con lo spirito matriarcale, femminista e purificatore del disco, la cantante ha arruolato una sezione femminile di 12 flauti islandesi. E campionamenti – quanti campionamenti! – di varie specie di uccelli registrati tra Venezuela e Islanda.

Come sempre, il tracciato narrativo si snocciola tra natura e tecnologia, nel delicato equilibrio spirituale e prosaico. Un esempio lampante è la copertina del disco: l’artista si è ispirata a Persefone con un look madreperloso ideato dall'amico creativo James Merry. Nella mitologia classica, Persefone, aveva osato mangiare sei semi di melograno nell’inferno, un’azione reproba che le era valsa la condanna di vivere lì per l’eternità. Tuttavia, grazie all’intervento della madre Demetra, dea dell’agricoltura che in rivolta alla decisione degli dei aveva scatenato un inverno senza fine, aveva ottenuto il compromesso di far vivere la figlia nell’oltretomba il numero di mesi equivalente al numero di semi mangiati. Di comune accordo con Zeus, quindi, la dea poteva tornare sei mesi sulla Terra e viverli insieme alla madre, che gioiosa del suo periodico ritorno, celebrava la primavera e l’estate. Analogamente, il genio islandese, che ha fatto permanenza nell’Ade della sua sciagura amorosa per due anni, è tornata in superficie piena di consapevolezza e di  speranza.

Sentimenti che esplodono con l’apripista “Arisen my senses”, mix liquoroso erotico e carnale che attraversa liriche esplicite nello stile di “Vespertine”( <<Who, who would have known? /A train of pearls /Cabin by cabin /Is shot precisely/ Across an ocean>> scriveva in “Cocoon” ). Descrive, ravvivata nell’animo, un bacio che ingloba tutto l’amore  (tematica che tornerà in "Blissing me"). I palmi e le mani tornano finalmente a sentire l'amore pulsare, e si citano maniacalmente i mixtape, la musica, il riconoscersi tra persone con lo stesso martellante amore per la musica.

"Due nerd ossessionati", canta per l'appunto nella delicata Blissing me. Arpa e dissonanze in casa venezuelana Arpa dominano una melodia angelica, ultraterrena. Le basi dell'utopia a cui la cantante fa riferimento sono lanciate. Un'utopia che  non è una sferzata di giustizialismo a colpi di yatagan, ma una delicata ricerca di equilibrio di ylang-ylang contro i pregiudizi ubbiosi e machisti, nell’esplorazione di una terra ubertosa ricolma di splendore primordiale. Nonostante la forte alchimia dei due ingegneri del suono, è Björk ad avere sempre pronto l’ultimo ritocco ed energica e visionaria riabbellisce suoni provenienti dal mondo di Arca che oramai ci eravamo rassegnati a dover smaltire così come erano: irascibili, biliari, persino cacofonici per il semplice gusto di essere alternativi.

The gate” è il primo vero plot twisting, non tanto per lo stupore melodico, ma per il cordone ombelicale ancora inevitabilmente attaccato all’album precedente. Non a caso il brano è stato scelto come singolo per anticipare il disco e simboleggia il portale dal quale le ferite inflitte dal divorzio possono finalmente sublimarsi in premura, affetto per l’amore e la tenerezza elargiti, sollecitudine per la capacità di dare e ricevere quell’amore dilaniato dalla separazione.

Nella tracklist risiede lo spirito centrale del concept: una purificazione globale della specie umana in questi tempi bui e spietati. Casomai ci fosse una lanterna, una torcia di salvezza dall'oscurità plumbea in cui siamo precipitati, la cantante la ripone nell'arte, nella musica. Addirittura , nelle sue mani (<<You assigned me to protect our lantern/ To be intentional about the light>>). Spirito e carne si inseguono, non si separano mai. In “Body Memory” si riappropria della sua fisicità così come richiede a noi tutti di riappropriarci dell'istinto ancestrale alla lotta, a una sopravvivenza migliore. La cantante si domanda se è pronta ad accettare la sua sorte, e la risposta giunge con un verso che non lascia scampo a interpretazioni: "Faccio wrestling con il mio destino", come Wolverine rifiuta di accettare le condizioni imposte dagli spietati vincoli partriarcali e dagli abomini politici dell'Occidente. Il percorso riabilitante sposa l’ebbrezza, la forza fabbricativa delle donne. E i testi, chiaramente, sono sempre di casa  Guðmundsdóttir, e in quanto tali non possono essere fabilau di facile presa, e finiscono per essere le solite testualità meravigliose prolifiche di metafore e ridondanze dalla penna anarchica e sfacciata. Si domanda, ad esempio, come fare per catturare l’amore che è nell’aria, come fare a raccogliere l’oceano utilizzando un ago come misera provetta (strizzando l’occhio alla storia del premio nobel Wangari Maathai dell’uccellino che salva la foresta dall’incendio contro l’inerzia dell’elefante).

Features creatures” pesca da “Medulla” la struttura corale, con armonie vocali che inseguono un testo trasparente, dedicato all'uomo ideale, un essere umano che va in un determinato negozio di dischi con un accento ben definito e una barba riconoscibile. Quando vede qualcuno di simile a lui, Björk canta di essere letteralmente (mai il suo accento islandese era stato così forte) a cinque minuti dall'amore. Dall’amore, sì, centrale in tutto questo “Tinder album”. Lei stessa precisa di essersi innamorata del sentimento in quanto forza rinnovatrice, come impulso trascendentale cui aspirare, come la Madame Bovary di Flaubert. Ma alla sua età, e nello zenit della carriera, oltre a essere un lofio risveglio dei sensi, l’amore accoglie soprattutto la sfumatura di consapevolezza. Come donna, come madre. Ed ecco che in “Courtnship” i fantasmi del passato bussano alla porta per sollecitare la sua “Pelle di serpente, infreddolita dalla notte”. Descrive la gioia del reinnamoramento, della scoperta di sensazioni positive, ma compare indelebile anche la sofferenza dell’abbandono (“The love you gave and have been given/ Weave into your own dream /I trust my cells to rearchive/  My love historic stream).

Proprio in questo senso “Loss” è il rituale conclusivo della presa di coscienza, e vanta uno dei testi più belli della discografia della cantante. La quale, circondandosi del texano Rabid, abbraccia il suo destino universalizzando i suoi sentimenti in una pioggia di meteoriti elettronici che convince magnificamente. Tutti soffrono una perdita, almeno di una, nella vita, ma è attraverso  il superamento di questo dolore che viene definita la nostra identità. Solo così potremo navigare verso una nuova libertà afrodisiaca.

In “Sue me”la rabbia riaffiora per denunciare il narcisismo dell’ex marito, accompagnandosi alla richiesta decisa di rompere l'incantesimo del dolore riversato inevitabilmente sulla figlia Isadora. La cantante chiede che le si faccia causa, irata  e pronta ad ammettere tutte le sue debolezze. Ancora una volta  compare una metafora stupefacente:  quella biblica tratta dal “Libro dei Re” in cui due donne reclamano entrambe la maternità di un bimbo e il Re Salomone, dopo aver  chiesto a entrambe chi sia la vera madre e aver ricevuto l’ovvia risposta da entrambe, propone di dividere il bimbo in due parti. Chiaramente, a quel punto, la vera madre rifiuta e interviene energicamente per difendere la sua creatura. Allo stesso modo l’artista non vuole arrivare a tanto, nel tira-e-molla con il suo ex partner, e dichiara di voler soltanto insegnare a sua figlia la lezione più importante: avere dignità nei confronti degli errori commessi. A seguire, infatti, è “Tabula rasa”, in cui è madre protettiva che si augura di lasciare in eredità il minor ammontare di peso possibile alla figlia, nonostante dovrà inevitabilmente affrontare il dolore. Si augura accorata che  non ripeta gli sbagli commessi dai genitori, così come degli avi in generale. Affinché questo sia possibile, bisognare fare tabula rasa di quello che è stato, fare punto e a capo. Le zacchere elettroniche impulsive si associano al riappropriarsi della fiscalità, dell’erotismo. La natura del corpo e quella attorno a noi vibrano in sincrono e in “Claimstaker” è evidente. “The forest in me”, canta sacrale, riprendendo la filosofia di Elasco Vitali in “Foresta Rossa/ Città abbandonata”.

Paradisia” è l’accesso strumentale ai terreni fertili e rigogliosi dell’immaginazione, seguita dall’incantevole “Saint”, un’ode alla musica come Dea dai poteri ricreativi. Madrina e seguace del suo culto, la cantante è sulla Terra per difenderla.

A chiudere lo splendore metafisico, i synth chords di “Future Forever” commuovono per la loro sussurrata, preziosa bellezza. Siamo di fronti al girone di ritorno di “All is full of love”, di cui cita persino il testo: “Trust your head around/ Guide your stare elsewhere/ Your love is already waiting /You're already in it” abbraccia a distanza di vent’anni  il verso purificatore “Twist your head around /It's all around you /All is full of love /All around you”. Era dai tempi della buonanima di Mark Bell che non ascoltavamo un finale così bello.

Björk ha saputo trasportare in musica ciò che Jean Barbe affermava nella letteratura, quando scriveva che “E’ questo l’amore: svanire come un soffio nel calore di una pelle più dolce della propria, dimenticarsi e rinascere.” Proprio così, nella Summa Theologiae della sua brillante carriera, raggiunge uno dei picchi più alti di meraviglia.

 

 

 

 

Tracklist


1Arisen My Senses 
2Blissing Me 
3The Gate
4Utopia 
5Body Memory 
6Features Creatures 
7Courtship 
8Losss 
9Sue Me 
10Tabula Rasa 
​Claimstaker
12Paradisia 
13Saint 
14Future Forever 

  • 9/10
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