Recensione: Antonio’s Revenge – All Under Control

Antonio's Revenge

Uscito il 4 novembre, targato DeepOut Records, il disco d’esordio degli Antonio’s Revenge, “All under control”, rimette mano a tre brani tratti dal precedente ep di lancio “Time square l\ights” riarrangiandoli  completamente e ingrana la marcia del talento con otto canzoni inedite e trascinanti. Un disco, quello del duo Giovanni Boscaini (fedele al basso come Babar l’elefantino al richiamo della foresta) & Alessandro Razzi (chitarra e voce), con l’aggiunta di Pedro Perini alla batteria, che poggia su un crinale che riunisce le dinamiche sociali del nostro tempo e della nostra fragilità con classe e stile, senza perdersi in fronzoli. Un album dal suono accorpato, dalla grinta liceale, ma senza falò: dietro vi si proiettano la letteratura, l’introspezione analitica, il culto per la buona musica d’ispirazione. Come nella tematica del singolo di lancio, “Better than myself”, dalle sonorità accattivanti e dagli accordi schierati ad ammaliare, laddove la voce interviene a costruire un afflato spontaneo, senza sembrare questuante di assensi infantili, per raccontare dell’eterna rivalità di chi crede di avere la meglio sempre dalla sua parte. Il controllo è solamente un pretesto, il più delle volte, per ottenebrare il rigoglio dei sentimenti impazziti, ed ecco che in “Reach you” la mancanza prevale sull'orgoglio e si crea un brano dalla delicatezza crêpe satin che sa indurire l’animo dinnanzi alle lacrime, ma che ha la stessa potenza di “All apologies” dei Nirvana, con rassomiglianze di colore all’ardore dei Sonic Youth e alla dolcezza dark dei The Cure (echi di “Underneath the stars” se ne avvertono, ma sono un punto a favore). L’invito è sempre a fronteggiare se stessi (“Lies no longer”, “Weather man”) consapevoli della distanza che scorre come un pendolo tra i rapporti umani (“Distance”) ed è la musica a ritrarre quello spazio esistente tra gli abbracci delineando la zona d’ombra delle parole non dette, nella splendida “Between the lines” che tutti sogneremmo di ascoltare come colonna sonora di un film, per corrervi sopra, indossandola al sicuro tra gli auricolari. I cambi di scena sono agili e appaccano gli uditi più esigenti passando dal ‘western road’ che si ispira a David Gilmour (la rustica “One more beer”) al brit-pop incalzante alla The National con “The kids have never dreamed to be so happy”. È insomma un disco legato alla musica che produce come un albero di cocco cresciuto dalla placenta sotterrata nel terreno, per tracciare un parallelo con i Maori delle isole Cook: non importa che riprenda i colori di una tradizione anglosassone – pur rimaneggiandoli con maestria di proprio pugno – conta che sia autentico, sfacciato, contrariamente al titolo: incontrollato. E per questo degno di essere rispettato.

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  • 8.5/10
    - 8.5/10
8.5/10

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